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Akio Niisato. Luci di straforo

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Akio Niisato. Luci di straforo

Akio Niisato

 

LUCI DI STRAFORO
di Alberto Mugnaini

L’alternarsi di vuoto e pieno, di luce e ombra, di interno ed esterno, questo equilibrio instabile di contrasti che riproduce all’infinito la dialettica tra yin e yang e che contraddistingue tutte le manifestazioni del pensiero orientale, è la caratteristica fondamentale che anima i lavori in ceramica di Niisato Akio.

Questi artefatti, se nascono sotto il segno di un’umida malleabilità, plasmati dal gesto accarezzante tipico del vasaio, si sviluppano poi attraverso un crescendo di ustioni e una grandinata di forature: cotti in forno diverse volte e percorsi a raffiche implacabili da punture di trapano, si mostrano come minimali contenitori – ora cilindrici ora a tronco di cono, a sezione ora circolare ora ellittica o addirittura poligonale – la cui superficie porta impressa una particolare forma di scrittura, una proliferazione di segni memori della più autentica tradizione giapponese, praticata però secondo una modalità di ascendenza del tutto occidentale. Non è la titillante punta del pennello usata dal calligrafo a tracciarla, bensì un oggetto acuminato e ruotante, una sorta di stilo, la punta che incideva la tavoletta incerata che era il supporto scrittorio tipico della nostra classicità. Questa divaricazione di procedimento potrebbe essere presa a esempio della prospettiva multiculturale che informa il lavoro di Niisato, affondato nella solida tradizione della sua terra ma sempre attento a cogliere i suggerimenti e le postille che gli pervengano dalla sua non superficiale frequentazione della cultura dell’Occidente.

Il risultato di questo gioco di antinomie è un instancabile movimento ritmico che percorre come un unico interminabile brivido le opere dell’artista giapponese. I riferimenti, i confronti e perfino le competizioni con la ricerca musicale della suo paese, apertamente dichiarati, fanno fede di ciò. E non c’è bisogno di fermarsi ai suoi interlocutori contemporanei, quali Ryoji Ikeda o Merzbow, ma si potrebbe retrocedere molto a fondo nella storia della musica nipponica per trovare le radici di questa dinamica. E sempre è il cosiddetto ma, cioè l’intervallo tra i suoni, che crea il ritmo. Ma di ritmo non solo in campo musicale c’è bisogno. Nel kadō, ossia l’arte di disporre i fiori, è fondamentale tenere conto anche degli interstizi che si formano tra le foglie e tra le corolle, così come ineludibili sono le pause nei gesti del maestro della cerimonia del tè. In Niisato potremmo affermare che la materia è ma rispetto al fluire della luce, mentre il foro praticato dal trapano è ma rispetto alla continuità strutturale della materia, che viene così diffratta, eccepita, intervallata di pulviscolo luminoso, il quale, a sua volta, l’esalta e la vivifica.

Nelle ceramiche di colore blu le coppie antagonistiche vuoto-pieno e luce-ombra si modulano senza mediazioni: i fori sono vere aperture, costellazioni di vuoto nell’azzurro -tenebra della materia, varchi per la luce, pertugi per repentini transiti della chiarità del giorno e della fugacità dell’attimo. Viene in mente una composizione di Mario Luzi, laddove il poeta evoca un “sipario / di materia e d’ombra” che gli cela la luce del giorno. Ma poi ecco che l’ambiente, “dai minimi spiragli, / s’incendia di straforo”, si illumina di segni luminosi che attestano la persistenza del chiarore del mattino. Anche attraverso il curvo sipario della ceramica si dispiega una simile epifania di luce; che qui, però, si dilunga e si sussegue non secondo l’arbitrarietà del caso, ma moltiplicandosi attraverso calcolate diffrazioni, ordinandosi in pattern complicati, proprio tramite il susseguirsi di “minimi spiragli”, che però possono di volta in volta variare di diametro e di posizione, come una coreografia di lucciole che si avvicinino e si allontanino nel cuore della notte.

Nei lavori di ceramica bianca i fori vengono invece intasati da un diaframma vetroso che si forma come una bolla di sapone entro il perimetro di una cannuccia, come una bava rappresa che ostacola e trasfigura ulteriormente il percorso della luce, una palpebra traslucida che vela i piccoli oculi che si aprono attraverso l’opacità dell’epidermide. E’ come se i buchi si trasformassero in minuscoli timpani attraverso i quali possa risuonare la musica della luce. Il susseguirsi di globuli luminosi assume così, nella scorza della ceramica, un aspetto simile a quello di una filigrana praticata nella compatta superficie di un foglio di carta, e più che di una vera apertura si potrebbe parlare di una rarefazione nel tessuto della materia.

Un oggetto della tradizione giapponese che viene riecheggiato dalla procedura di lavorazione che stiamo qui esaminando e che ha sempre avuto forti legami simbolici con l’idea di illuminazione interiore è la lanterna di ceramica. Nel nostro caso si potrebbe ben discorrere di lanterne invertite, trappole piuttosto che fonti di luce, lampade in negativo, senza centro e senza fuoco, luce calamitata e triturata, ammorbidita e sminuzzata. Un microcosmo, potremmo aggiungere, che rispecchia alla lettera la famosa definizione di Confucio riguardo alle stelle, che, nel cosmo, non sarebbero altro che i buchi attraverso cui filtra la luce dell’infinito: il contenitore, circolare o ellittico, diventa così, in Niisato, un agglomerato di orbite, un abbraccio di traiettorie stellate che ora corrono parallele, ora s’intersecano e s’incrociano; scie di nebulose inframezzate da piccoli quadranti di oscurità, vie lattee messe in fila e spazializzate geometricamente, code di comete pettinate e scandite con rigore matematico. E il demiurgo di quest’ordine, uscendo di metafora, altro non è che l’occhio dell’artefice, che calibra a vista le distanze dei singoli fori, che li allinea lungo i percorsi curvi attraverso i quali si interfacciano il dentro e il fuori del “vaso”. Non si è poi molto lontani dai “concetti spaziali” di Lucio Fontana, e in particolare dalle sue forature praticate a colpi di punteruolo, dalle quali, non a caso – come egli fu udito dire – “passa l’infinito”.

Abbiamo fatto riferimento a Lucio Fontana, ma altri artisti italiani potrebbero essere chiamati in causa. Si può pensare ai “filtri” di Francesco Lo Savio, carte traslucide o sottili reti metalliche sovrapposte al disegno che creano inafferrabili palpitazioni luminose; o alle “superfici” di Enrico Castellani, tele monocrome che – punzecchiate dal rovescio e inchiodate dal lato dello spettatore – si strutturano in un gioco di spuntoni e avvallamenti secondo una progressione aritmetica che intreccia discontinuità e ripetizione. Ma si tratta pur sempre di superfici, di un piano virtuale che conserva ancora intatta la iattanza tutta occidentale del “quadro”, finestra metafisica su una realtà completamente separata dal quotidiano. Non si esce dai confini di quell’oggetto a statuto speciale che è l’opera d’arte, da appendere, da contemplare separata dal resto del mondo entro un suo proprio alone di eccezionalità.

Mantenendo come requisito essenziale dei suoi lavori la conformazione cava propria del recipiente, Niisato si avvicina, più che all’idea dell’opera ipostatizzata della cultura occidentale, in cui tutto è pieno e significante, alla tradizione orientale dell’artefatto inserito nel ritmo della vita, aperto all’accadere, permeato di transitorietà. E questo rapportarsi alla morfologia del vaso gli consente semmai di appropriarsi delle considerazioni di Heidegger a proposito della forma della brocca, la cui essenza è più caratterizzata dal vuoto che dal pieno. Nel caso di Niisato si potrebbe parlare di brocche che, al posto dell’acqua, non solo contengono la luce, ma che la trasformano, la agitano, la rendono palpabile e la restituiscono all’ambiente sottraendola ai sacri penetrali degli spazi celesti, custodi e detentori di una luce che nella teologia cristiana, nel corso del medio evo, si era irrigidita in una peculiare forma di metafisica.

Di metafisica della luce si può parlare anche a proposito dell’Oriente, basti citare la basilare opera di Keizan, La trasmissione della luce, che nel XIV secolo tratteggia il percorso attraverso il quale il singolo individuo può arrivare egli stesso all’illuminazione. Ma si tratta di una metafisica, come ci dice Roland Barthes nel suo libro dedicato ai diversi aspetti della cultura giapponese, “che non ha né soggetto né Dio”; e l’illuminazione, il satori, “non s’identifica assolutamente con la discesa illuminatrice di Dio ma piuttosto come ‘risveglio di fronte all’evento’, scelta della cosa come accadimento e non come sostanza”. La trascendenza diventa immanenza, il fisso splendore dell’eternità si trasforma in guizzo transitorio, in barbaglio fuggente che attraversa un universo permeabile e pervaso di respiro, in cui anche il “cielo delle stelle fisse” di dantesca memoria, come attesta la sopracitata massima confuciana, diventa esso stesso un filtro e un passaggio.

In base a tutte queste considerazioni possiamo finalmente intendere il senso profondo della ricerca di Niisato e il perché di questo suo accanimento di smaterializzazione. La sua aspirazione non è certo stressare i materiali fino all’estremo limite della loro resistenza, come da noi fu fatto in epoca manieristica e poi barocca, in spericolati esercizi di virtuosismo. Con i suoi coups de style, come avrebbe detto Derrida, “colpi di stile” e allo stesso tempo “colpi di stilo”, con le sue ossessive perforazioni in punta di trapano, con questi suoi esercizi di transitorietà egli persegue il miraggio, anche, di una transitività sempre rinnovata della materia; cosicché attraverso di essa ci accada di cogliere una sorta di perlage che ci doni la luce nel suo splendore più radioso e sfaccettato, e, al tempo stesso, più effimero.